Il segreto della felicità
- Autore: BASTELLI CHIARA
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- 08 apr, 2018
Quando pensare positivo non basta
Qual è il segreto della felicità? Gli uomini se lo chiedono da sempre ma la risposta definitiva sembra non essere ancora arrivata. Eppure, in questi ultimi decenni si è sviluppata preponderante una corrente che ha invaso librerie e talk show: il potere del pensiero positivo. Imparare a vedere il bicchiere mezzo pieno, proiettarsi mentalmente nella persona che si vorrebbe diventare, prestare attenzione solo al lato più piacevole della nostra vita e aspettarsi che le cose vadano come vorremmo. Questi sono alcuni degli insegnamenti custoditi in vari libri di crescita personale e auto aiuto.
Il ragionamento sembrerebbe non fare una piega: come fa un pessimista, che non ha fiducia in se stesso e nel mondo, a superare ostacoli e difficoltà per realizzare i propri desideri?
Le voci che si discordano dal pensiero positivo, però, esistono. Forse la più nota è quella della psicologa tedesca Gabriele Oettingen. Dopo il suo trasferimento negli Stati Uniti, colpita dall’ossessione del “sogno americano” e del pensare positivo, con piglio tutto teutonico la Oettingen cominciò ad analizzare gli effetti di questa teoria con metodo scientifico.
Nel suo esperimento più famoso, del 1988, prese in considerazione un gruppo di neolaureati in cerca di occupazione e li ha intervistò per capire quanto fossero inclini ad avere aspettative positive sul loro futuro. Due anni più tardi, scoprì che i più ottimisti avevano raccolto risultati peggiori.
Secondo la psicologa, le fantasie e le visualizzazioni avevano ottenuto l’effetto opposto perché chi evita i problemi si rilassa e perde la motivazione necessaria a raggiungere i propri obiettivi.
La sua teoria del “contrasto mentale”, quindi, invita tutti a restare con i piedi per terra, avere obiettivi chiari e valutare ogni aspetto delle situazioni, in modo da poter anticipare, prevedere e pianificare il superamento degli ostacoli che si incontreranno mentre si prova a raggiungere i propri obiettivi.
Dal mio punto di vista, entrambe le posizioni hanno degli insegnamenti da darci. Pensare positivo può certamente essere un valore aggiunto alla nostra vita, ma questo non è sufficiente se poi non viene supportato dall’azione. Servono sforzi concreti per creare le condizioni a noi più adatte, non bisogna farsi spaventare dagli imprevisti ma, anzi, è necessario tenerli in considerazione in ogni previsione e prepararsi ad affrontarli.
E, soprattutto, è bene essere pronti ad accettare ciò che non è possibile cambiare in nessun modo, mettendosi sempre nella condizione di sapersi adattare alle condizioni, quando queste cambiano.
Non giudicare una persona da come appare è una buona norma sempre valida anche se non è così semplice seguirla. In molti casi, infatti, è il nostro stesso cervello che ci porta a generalizzare, estendendo il giudizio su una persona o un oggetto da un singolo aspetto a una valutazione generale. In altre parole: siamo portati ad attribuire a una persona di bell’aspetto una serie di caratteristiche positive (è intelligente, solare, buona, educata, onesta) anche senza verificare se le possieda o meno. Allo stesso modo, imbatterci in una persona dall’aspetto trasandato ci può portare, senza volerlo, a considerarla anche maleducata, poco intelligente, pericolosa…
Questo fenomeno si chiama “effetto alone” e fu rilevato per la prima volta nel 1920 dallo psicologo Edward L. Thorndike durante uno studio sui comportamenti all’interno dell’esercito. Lo psicologo notò che i militari tendevano a descrivere in maniera generalmente positiva i loro superiori dopo aver scoperto in questi ultimi una qualità positiva; e viceversa, attribuivano un giudizio negativo se avevano scoperto una qualità negativa.
Un altro interessante esperimento su questo tema è stato condotto nel 1969: un gruppo di persone fu chiamato a valutare la colpevolezza di una persona coinvolta in un incidente automobilistico. Furono presentate diverse vittime e diversi imputati, più o meno attraenti. Il risultato fu che i giurati attribuirono pene più severe quando la vittima era attraente e/o quando l’imputato era poco attraente. Il giudizio era quindi stato influenzato dall’aspetto fisico dei soggetti coinvolti. Per “fortuna” successivi esperimenti dimostrarono che l’effetto alone non era più valido nel caso di reati gravi.
L’effetto alone condiziona però la nostra vita quotidiana: pensiamo a come viene usato in politica, oppure a come influisce sugli esami e su colloqui di lavoro, o a come viene sfruttato in pubblicità, dove, ad esempio, si chiede a un attore molto bello di mostrarsi appassionato di un prodotto anche se le sue competenze su quel prodotto sono limitate.
Fermarsi qualche minuto a pensare come l’effetto alone influisca sulle nostre scelte di tutti i giorni può essere un buon esercizio per aumentare la nostra consapevolezza su noi stessi e sul mondo che ci circonda.